La psicoterapia, secondo me

“La psicoterapia, secondo me” – la mia visione… ‘teorica’: faccio l’analista “relazionale” ma tenendo insieme l’approccio clinico fenomenologico, etnopsichiatrico, Jung, i contributi delle neuroscienze… non nel senso di fare un mischione. Si tratta di aiutare l’altro a crescere facendogli fare l’esperienza di modalità relazionali sane con una figura il cui ruolo lo pone in analogia ad un genitore, e in quel contesto scoprire “che cosa ci sta dietro” al malessere, elaborarlo, renderlo narrabile e cavandone in fine una liberante “competenza” (padronanza) di sé. Tutto ciò a partire dal fatto che disagi e disturbi sono conseguenza di qualcosa che non è andato bene nel corso del proprio sviluppo, cioè esperienze di modalità relazionali disfunzionali agite dall’ambiente primario, comprese violenze e traumi.


La psicoterapia, secondo me

⇒ BENESSERE
Come precisa anche il codice deontologico degli psicologi (art. 3) compito dello psicologo è “promuovere il benessere dell’individuo, del gruppo e della comunità”. Io, come psicologo psicoterapeuta, lo faccio aiutando le persone ad acquisire una competenza di sé: una padronanza di sé, con cui gestire autonomamente il proprio mal-essere e orientarsi nel mondo per cercare e tutelare il proprio ben-essere.

⇒ ASCOLTO
Da terapeuti si ascolta con le orecchie ma anche con il cuore, io direi con gli occhi, con i reni e col midollo, volendo. Si ascoltano il paziente, se stessi e la relazione fra l’uno e l’altro, così come si manifesta nel qui e ora della seduta. Quest’ascolto consente prima di tutto di offrire alla persona l’esperienza di sentirsi accolto, rispettato e compreso, cosa che è già di per sé terapeutica. Prima ancora di aprire bocca io “sono stato con” il paziente ad una giusta distanza, sentendo – nel limite del possibile – il suo vissuto. Mi sono sintonizzato, e a partire da qui il mio interlocutore potrà ricevere le mie comunicazioni sentendo, a sua volta, che poggiano su un’intenzione sincera di essere d’aiuto e non hanno una pretesa di verità. Non ho la verità in tasca e la cerco insieme a te.

⇒ UNA PSICOTERAPIA PERCHÉ?
– perché parlare con amici e parenti non mi basta più – perché ho cominciato a non dormire- perché il mio ex mi mette i nostri figli contro
– perché vedo ogni giorno una marea di gente ma mi sento solo come un cane
– perché mi sono resa conto che mio marito non mi ha mai amata veramente ma non riesco a separarmi
– perché nostra figlia rifiuta di studiare e non le si può dire niente- perché faccio da anni un lavoro che odio e non vedo un’alternativa- perché non mi controllo più quando bevo e ho paura di perdere il lavoro- perché anche se sono riuscito a fare i miei coming out in famiglia e fuori, mi sento ancora sbagliato- perché mi sono accorta di essere profondamente infelice. Da tanto tempo.

⇒ CURA-DELLE-RELAZIONI
“Avere cura delle relazioni con se stessi, con i propri familiari, le persone care, i colleghi e i capi, gli altri in generale. Con le persone e con le istituzioni.”
Questa è una delle possibili definizioni che darei alla psicoterapia “in senso lato”. Molte persone sono in grado di praticarla e lo fanno magari senza neppure porsi il problema: ne traggono beneficio loro e chi con loro viene a contatto.
Naturalmente esiste la psicoterapia intesa “in senso stretto”, che richiede di entrare in relazione con un professionista, esperto nella conduzione di relazioni che siano terapeutiche.
Attraverso l’esperienza dell’incontro autentico con il terapeuta; attraverso la sperimentazione, nello spazio terapeutico, di modalità relazionali “sane”; attraverso, infine, la presentificazione e rielaborazione nel “qui e ora” della seduta, di “vecchie questioni” rimaste in sospeso, forse dimenticate e nondimeno attive nel dare forma agli incontri e scambi che quotidianamente abbiamo con i nostri interlocutori… si interviene su “ciò che sta dietro” al disagio emotivo e relazionale.
Con la presa di coscienza di ciò che “guasta” le nostre relazioni, rendendole talvolta anche molto difficili, si acquisisce quel “sapere-competenza-padronanza di sé”, utili per praticare la psicoterapia in senso lato di cui sopra senza più bisogno della presenza, in carne ed ossa, di un terapeuta.

⇒ GLI PSICOLOGI (BRAVI) NON DANNO CONSIGLI
Gli psicologi psicoterapeuti onesti e capaci (come me ;p) non sanno cosa sia meglio per te, né come ti dovresti comportare. Per contro, si interessano sinceramente dei loro pazienti e vogliono il loro bene (1), senza la presunzione di conoscerlo.
L’aiuto (la terapia) che possono offrire consiste nell’accompagnare chi si trova in difficoltà, anche importanti, a vedere con i propri occhi, accettare l’esistente con il proprio cuore, andare avanti per la propria strada con le proprie gambe. Cioè accompagnare ad assumersi la responsabilità di sé e del proprio desiderio (2).
Note:(1) com’è possibile che un terapeuta abbia un interesse sincero e voglia il bene dei propri pazienti, se le sue sono prestazioni professionali rese a fronte di un compenso? Non lo so – cioè: è un discorso che magari affronterò altrove – ma è così.
(2) “assumersi le proprie responsabilità” È un’espressione che non amo perché mi suona moralistica. La uso perché, considerando la “responsabilità” come l’etimologia del termine suggerisce, cioè come “capacità di/impegno a rispondere (di sé)”, allora… ci sta. Si tratta di una questione etica, più che morale.

⇒ QUANDO FINISCE UNA TERAPIA?
Quando si è imparato ad andare in bicicletta!
Cioè ad andare avanti – nella direzione che ci si è scelta – compensando i continui disequilibri che il vivere quotidianamente ci riserva.

⇒ COME SI DIVENTA TERAPEUTI?
Facendo “la strada lunga”, cioè andando oltre una formazione accademica, pur preziosa e appassionante.
Si diventa terapeuti, variamente feriti e doloranti, maturando la passione di aiutare altri alle prese più o meno con le stesse magagne, mentre si sta lavorando duro per attraversare il proprio mondo personale. Quel mondo può contenere di tutto: lutti non fatti, passaggi evolutivi in cui si continua a inciampare senza riuscire ad andare oltre, il sentimento di essere eternamente in colpa e in difetto, il vergognarsi di sé come quando si subiscono abusi e violenze, e così via. Né più (a volte anche un po’ di più) né meno dei guai che passano gli altri pazienti.
Si diventa terapeuti perché si è stati pazienti e si è compreso per esperienza che cosa sia una relazione terapeutica.
Si diventa terapeuti perché nella propria peripezia esistenziale si sono vissute esperienze che non si sarebbero mai nemmeno immaginate. Perché si è toccato nel proprio intimo qualcosa che riguarda ed appartiene ad ogni umano, in ogni cultura. Quando si attinge ad un sapere sull’umano che può essere utile ad altri, si sente una spinta alla condivisione e a farne un uso responsabile: si tratta di qualcosa che non può restare chiuso dentro di sé. Quindi si sente sempre più forte il desiderio di sedersi anche su quell’altra sedia lì di fronte.
In concreto si sceglie una scuola di specializzazione e si fa tutto quanto previsto dalla legge per ottenere il pezzo di carta, in questo caso con su scritto “diploma di specializzazione in psicoterapia”. Nella sostanza, però, si diventa terapeuti perché dentro e fuori, prima e dopo la specializzazione, non si smette di apprendere quel sapere terapeutico che è artigianale, sempre perfettibile grazie a incontri e scambi con colleghi conosciuti di persona o leggendo i loro libri.
Si diventa terapeuti perché la psicoterapia, almeno come la intendo io, è una pratica quotidiana che riguarda anche altri momenti e aspetti della propria vita, che vanno al di là degl’incontri con i pazienti. Il lavoro su di sé e la formazione sono felicemente interminabili e non possono prescindere dalla partecipazione alla vita sociale della propria comunità (dimensione politica del lavoro), né da un minimo grado di coerenza fra come si predica e come si razzola (dimensione etica del lavoro).

⇒ DIAGNOSI È TERAPIA
Me la cavo con una formula paradossale per affrontare il tema “tormentoso”, per me e per tanti colleghi, della natura e della funzione del processo diagnostico in rapporto al processo terapeutico.In realtà si tratta di un tema ampio, relativamente poco esplorato, affrontato in modo convincente da Vittorio Lingiardi nel suo libro “Diagnosi e destino”, recentemente uscito per Einaudi, che consiglio.
La diagnosi “Psico-” si differenzia dalla diagnosi medica in quanto non formulabile a prescindere dallo strutturarsi della relazione fra terapeuta ed (eventuale) paziente, fin dal primo sguardo che si scambiano. Si fonda, anzi, proprio su quanto accade nell’incontro. Etimologicamente, diagnosi significa “guardare/conoscere attraverso”. In pratica che cosa fa un terapeuta durante un primo colloquio? Ascolta, non diversamente da come fa durante le sedute di una terapia avviata: con le orecchie ma anche con il cuore, empaticamente; e “si sporge” a guardare, prima ancora di soffermarsi sul contenuto della componente verbale della comunicazione, che cosa succede tra i due, come il paziente si rivolge a lui, nonché quali emozioni, ricordi, fantasie gli suscita.
L’operazione non porta ad una conclusione “esatta”, spesso possibile in medicina per esempio esaminando gli esiti degli accertamenti svolti, bensì ad una valutazione che “esatta” non può essere, né “oggettiva”. Nondimeno, il processo diagnostico è cosa tutt’altro che approssimativa, in quanto il clinico conosce – in parte anche per esperienza diretta – le forme, le modalità, le “figure” attraverso le quali il disagio si manifesta, così come conosce le categorie di pensiero sulla base delle quali sono costruiti i manuali più usati nel mondo occidentale, in particolare il DSM V [quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, compilato dall’American Psychiatric Association], e come storicamente la nostra cultura sia andata costruendo e definendo ciò che si considera patologico. Un esempio: nelle prime edizioni del DSM l’omosessualità figurava come patologia; solo di recente (edizione del 1990) è stata definitivamente derubricata dal manuale.
Quindi?Quindi il clinico associa quel singolo paziente ad un insieme di persone che, ciascuna a proprio modo, vivono qualcosa di simile, qualcosa di “tipico”, riconoscibile, sufficientemente noto, a cui è stato dato un nome, come nel caso dei comuni sintomi d’ansia, o dei disturbi del comportamento alimentare. Su tali disturbi hanno lavorato tanti colleghi nel passato, con presupposti e punti di vista diversi, e ne hanno scritto. Certamente la conoscenza e la possibilità di consultare la letteratura specialistica è d’aiuto al terapeuta, che così non si ritrova di fronte a qualcosa di totalmente sconosciuto, con cui confrontarsi “da zero” per capirci qualcosa. “Da zero” si parte invece nella relazione con quella singola persona e con la sua storia, di cui è opportuno, se non doveroso, riconoscere con una certa precisione, “il tipo” di sofferenza.
Va comunicata, questa diagnosi, una volta formulata?(al di là del fatto che una diagnosi, per tanti aspetti, non si formula una volta per tutte e che il processo diagnostico accompagna il processo terapeutico nel suo svolgersi)Spesso ma non sempre: non bisogna mai smettere di rispettare l’altro. Può darsi che non voglia sapere, o che non gli sia utile. In ogni caso, quel che conta è che la diagnosi si traduca in una narrazione: non la si comunica con il linguaggio tecnico, freddo e anonimo di un manuale. Piuttosto si offre al paziente una restituzione, raccontando ciò che si ritiene opportuno utilizzando un linguaggio… quotidiano, da cui i termini tecnici non siano banditi ideologicamente, ma che sia il più possibile vicino alla lingua che parla quella persona.
Ecco: sentirsi capiti fa star meglio. In genere conforta anche sapere, se non il nome scientifico del proprio dolore, almeno che chi sta lì di fronte riconosca “che cos’ho”, che non è successo solo a me. Diagnosi è terapia in quanto si tratta di uno sforzo per comprendere l’esperienza dolorosa vissuta dall’altro e nel dialogo con l’altro coglierne il significato profondo.

⇒ UN LAVORO MOLTO “FISICO”
Se è vero che la psiche è la componente immateriale della persona umana, è altrettanto vero che ne abita il corpo. Altrimenti i nostri corpi non sarebbero materia vivente e noi saremmo… boh… spiriti disincarnati, qualcosa di brutto anche solo da immaginare.
Realizzandosi la psicoterapia nell’incontro autentico fra terapeuta e paziente (o pazienti), essa comporta un coinvolgimento dei protagonisti in carne, ossa, pancia, cuore, testa, anima, che è senz’altro emotivo, ma vorrei dire proprio “fisico”. Ci si sente stanchi, al termine di una seduta, sia che la si sia vissuta “da paziente”, sia che la si sia vissuta “da terapeuta”. Anzi: forse l’ingaggio richiesto al terapeuta è più “muscolare”, nel senso che ha il compito di offrire un contenimento all’altro (della paura, dell’angoscia, del senso di disorientamento… in generale del dolore). Né più né meno di quanto non faccia un genitore che prende in braccio un figlio piccolo che si è spaventato o che non sa governare la propria rabbia o la propria disperazione… o semplicemente la sua tendenza a rompere le scatole ai grandi che stanno parlando fra loro, per ritornare possibilmente al centro dell’attenzione. Né più né meno di quanto non faccia un genitore che mantiene la sua fermezza di fronte ad un figlio adolescente che “lo sfida”… più che altro per verificare che mamma e papà siano capaci di offrirgli ancora un contenimento, se non sotto forma di abbraccio – che peraltro va (quasi) sempre bene –, sotto forma di limite o di norma che a quel punto, riconosciuta dal ragazzo come tale, possa anche essere trasgredita.
In seduta tutto questo accade, a persone adulte consapevolmente coinvolte in un processo terapeutico, le quali non si toccano fisicamente salvo rare eccezioni, se non per congedarsi con una stretta di mano al termine di ciascun incontro. Ma quello che si è vissuto, l’esperienza che si è vissuta e che ci si porta a casa è “sulla propria pelle”, tutt’altro che un mero esercizio dell’intelletto.
Capita quindi di ripetere con il terapeuta modalità relazionali disfunzionali che si agiscono senza saperlo, semplicemente perché, avendo sempre fatto così, quelle modalità sono effettivamente naturali, spontanee. Fa la differenza la capacità del terapeuta di rispondere a quelle comunicazioni in un modo non reattivo. Ciò significa che, non ricevendo la reazione attesa (per es. una svalutazione, un giudizio) ma una risposta empatica, che fa sentire compresi e che riconosce piena legittimità e ragionevolezza ai propri vissuti, il paziente faccia un’esperienza nuova, inedita, sorprendente, di sé e dell’altro. Per esempio accorgendosi con stupore di essere amabile, cosa che ti cambia la vita. Vivendo in terapia quell’esperienza ancora ed ancora, potrà nel tempo consolidare dentro di sé… un senso di sé e un modo di porsi in relazione con gli altri, che nutrano una fiducia e un’apertura forse mai conosciute prima: da lì al divenire liberi perché responsabili di sé (e viceversa) il passo è breve.

⇒ CHE COSA COSTA UNA PSICOTERAPIA?
FATICA o, meglio, fatica emotiva: confrontandosi con faccende “lasciate in sospeso”, giustamente ci si aspetta un alleggerimento, un senso di libertà. Ci tocca tuttavia mettere in conto un certo travaglio, vissuti di vulnerabilità, tristezza, magari delusione o ansietà: la buona notizia è che questi stati d’animo saranno sostenibili e il terapeuta non ci lascerà soli a smazzarceli.
TEMPO: bisogna organizzarsi in modo da incontrare il terapeuta rispettando la cadenza concordata delle sedute, in genere settimanalmente.
SOLDI: è vero, la psicoterapia svolta privatamente non è per tutti; è altrettanto vero che può essere più abbordabile di quanto non si creda. Infatti sono molti gli psicoterapeuti che tengono conto, nello stabilire le tariffe, di eventuali difficoltà economiche. Si cerca così di dare la possibilità di intraprendere una terapia anche a chi si rivolge ai servizi pubblici senza ottenere una risposta adeguata e tempestiva, a causa delle troppo scarse risorse su cui questi possono contare.

⇒ “PSICOTERAPIA PSICOANALITICA DI ORIENTAMENTO RELAZIONALE”: CHE VUOL DIRE? ovvero COME LAVORO
Accolgo e ascolto non solo con le orecchie. Sto con l’altro e talvolta l’invito a stare con il proprio sentire, anche se è spiacevole. Una volta aperta la comunicazione, in genere, il cliente-paziente esprime il suo disagio: si incazza, magari piange magari no, e racconta… un po’ come gli viene.
Il malessere ha sempre a che fare con delle relazioni (con il partner, con un figlio, con un genitore, con un capo…) Dunque stiamo molto sul “qui e ora”… e sulla nostra relazione terapeutica che si sta sviluppando. Il passato… c’entra eccome: si dice opportunamente che “siamo la nostra storia” o, anche, che “il nostro corpo è la nostra storia”. Il passato vale la pena di essere conosciuto a partire dal suo presentificarsi nel qui e ora della seduta, nell’incontro autentico con il terapeuta. Se si riconosce che cosa succede di non funzionale, che tende a ripetersi procurando sofferenze più o meno profonde, allora si può fare altrimenti.
Accorgendosi di cosa “fa” nelle relazioni, che guasta la comunicazione, il paziente acquisisce il potere di scegliere consapevolmente come gestirsi. Insistendo nel tempo, consolida modalità relazionali sane e soddisfacenti. Il passato non si ripete più e finalmente lo si può collocare davvero nel passato.
Tutto questo ha a che fare più col sentire, sperimentare, sorprendersi, apprendere dall’esperienza, condividere empaticamente, che con il parlare di per sé, magari in modo astratto. Talvolta, perdersi nei discorsi “intellettuali” serve a prendere le distanze da movimenti istintuali, emozioni e sentimenti che, per qualche motivo, fanno paura.
In sostanza io accompagno le persone ad affrontare le proprie paure; il viaggio che si fa insieme è verso la libertà, verso l’acquisizione di un sapere di sé, una competenza, una padronanza attraverso la quale orientarsi autonomamente nel mondo

⇒ LA PSICOTERAPIA FUNZIONA: PERCHÉ?
Perché in terapia si sperimenta un incontro autentico con una persona, il terapeuta, capace di coprire adeguatamente un ruolo analogo a quello genitoriale. Un incontro che si fa storia di una relazione “sufficientemente sana” per sostenere e promuovere la propria evoluzione personale.
Infatti, si può guardare insieme che cosa ce ne si è fatti, di quello che ci è stato fatto da genitori, figure di accudimento, ambienti sociali non “sufficientemente buoni”. E di conseguenza sbrogliare faccende rimaste in sospeso, all’interno dello spazio sicuro della terapia e nel mondo là fuori.
Per esempio, chi in famiglia è stato poco “visto”, poco accolto, poco festeggiato – in una parola: poco amato – spesso non ha potuto che costruirsi, per sopravvivere in quell’ambiente, una corrispondente immagine di sé, sentendosi inadeguato, di poco valore, non degno di riconoscimento… non degno di amore da parte delle persone affettivamente significative della sua vita. In questi casi, nell’incontro terapeutico si può scoprire – non senza sorpresa – di essere invece “amabili”, ciò che dischiude immediatamente una prospettiva inedita su relazioni soddisfacenti ora sentite come possibili, per cui vale la pena di alimentare le dipendenze buone e lasciar estinguere le dipendenze cattive.